sabato 24 ottobre 2009

Articolo dell'Unita' - 23 ottobre - Il lavoro a Brescia

Lavoro

Brescia, la resistenza della leonessa operaia contro la crisi

di Rinaldo Gianolatutti gli articoli dell'autore

L’appuntamento è alle nove, davanti ai cancelli presidiati della Mac, azienda di stampaggio di lamiere confinante con l’Iveco del gruppo Fiat. «Noi da qui non ci muoviamo» assicura Fausto Angeli, 43 anni, delegato della Fiom, «hanno già cercato di portar via i macchinari,ma li abbiamobloccati. Siamo rimasti154 operai, il padrone vuole trasferire tutto a Chivasso perchè dice che non c’è più lavoro. Fino al 1999 eravamo nell’Iveco, poi ci hanno scorporato ma avevano sottoscritto l’impegno a intervenire qualora ci fossero stati problemi occupazionali. Invece, adesso dicono che non possono far niente perchè c’è la crisi». Piove e fa freddo a Brescia, sul piazzale i lavoratori distribuiscono caffè e vin brulè per riscaldarsi. Dal palco improvvisato il microfono lancia gli interventi di operai e delegati, arriva anche il segretario della Fiom, Gianni Rinaldini. Brescia è stata la capitale dell’industria meccanica, grandi e piccole aziende, imprenditori duri e puri, lotte feroci e belle conquiste. Una massa enorme di operai, di tutte le condizioni e professionalità, presidio di democrazia e di stabilità del tessuto sociale.

La «leonessa» mostra oggi i segni vistosi della recessione, una miscela di aziende che soffrono le difficoltà congiunturali assieme ad altre, spesso multinazionali, che ne approfittano e chiudono per spostare altrove la produzione. «La situazione è questa: abbiamo 70mila lavoratori circa coinvolti nella cassa integrazione, 30mila assegni di disoccupazione, una serie di imprese che hanno deciso la chiusura come Mac, Comital, Ideal Standard, Federal Mogul e poi quelle del tessile, settore ormai a pezzi» spiega Marco Fenaroli, 59 anni, segretario della potente Camera del lavoro (110mila iscritti), «il territorio bresciano ha bisogno di nuovi progetti imprenditoriali, di investimenti, dobbiamo pensare a qualche nuova forma di sviluppo perchè questa crisi lascerà molte macerie. Gli imprenditori possono fare la loro parte, c’è il settore biomedicale che offre già buoni risultati, ma è necessario un progetto industriale, una regia politica, del governo. Non possono pensare solo a chiudere le fabbriche e a speculare sulle aree dismesse». Il sindaco Adriano Paroli è del Pdl. La sua amministrazione è influenzata dall’inutile cattiveria leghista. Gli immigrati, che sono oltre il 20% dei residenti, subiscono discriminazioni vergognose come quella del «bonus bebè»: ai figli degli stranieri niente soldi, solo agli italiani. La Cgil ha già vinto una serie di ricorsi. In più è iniziata la repressione spicciola, quella che elimina le panchine per evitare «assembramenti » e che multa gli immigrati se bevono una birra per strada. L’azione di contrasto è portata dalla Cgil e dalla Chiesa. La sinistra fa una gran fatica a farsi vedere sul territorio. Anche le imprese, a Brescia sempre dinamiche, cercano strade diverse pur con difficoltà, perchè non si vede l’orizzonte. Il leader degli industriali Giancarlo Dallera, produttore di cerchioni per auto, prevede «un inverno durissimo». È aperto alla collaborazione con il sindacato e mostra una morale che non guasta di questi tempi. Resistono i Lonati e i Camozzi (che ha salvato la Innse), è scomparsa la «bicamerale degli affari » di Chicco Gnutti, già scalatore di Telecom Italia. Un ruolo silenzioso e importante nel potere è giocato dal banchiere Giovanni Bazoli, anche se le disavventure del finanziere protetto Romain Zaleski hanno prodotto qualche problemino.

La questione centrale è che oggi il tessuto industriale perde pezzi, si sfilaccia, determina conseguenze gravissime sui lavoratori e nella società. Ele imprese, soprattutto le multinazionali, dovrebbero essere richiamate alle loro responsabilità. RiccardoRomano, 51 anni di Calvisano, è un dipendente della Rothe Erde, società della tristemente famosa Thyssen Krupp. Con lui in fabbrica lavora anche suo figlio, invalido civile. Davanti ai cancelli della Mac racconta: «Vogliono mettere in mobilità48 lavoratori, vogliono chiudere il reparto di montaggio perchè mandano fuori la produzione , la affidano a ex dipendenti diventati artigiani perchè dicono che costano meno. È una vergogna, non possono trattarci così. Fino adesso in fabbrica c’è stata una forte solidarietà tra i lavoratori, meno male». Nafouti Chafik è un tunisino di 42anni, da venti in Italia. Vive a Carpenedolo, è un funzionario della Fiom della bassa bresciana. «Nel paese di Visano ci sono 1900 abitanti, con sei aziende metalmeccaniche che occupano circa 700-800 dipendenti. Sono tutte in crisi» spiega, «così ci troviamo davanti alle vecchie aziende che chiudono o mettono la gente in cassa integrazione mentre non ci sono alternative per trovare un’altra occupazione». L’irresponsabilità di certe imprese nel mezzo della crisi la si misura con il caso della Federal Mogul, azienda di Desenzano del Garda, multinazionale americana del Michigan con partecipazioni nel settore automotive. Pietro Bresciani, 55 anni di cui 36passati in azienda, racconta: «Facciamo pistoni, canne, segmenti, abbiamo una velocità e una capacità di produzione senza paragoni. Siamo 195 lavoratori, il 15settembre l’azienda ci ha comunicato che chiude. Tutti a casa. La spiegazione ufficiale è che non ci sono più ordini. La verità è che questi americani hanno deciso di spostare la produzione in Romania, Polonia, Germania, Repubblica Ceca. L’area dove sorge la fabbrica fa gola a molti: sono 33mila metri quadrati di terreno e 20mila coperti. Desenzano è una città turistica, ci buttano fuori e fannouna bella speculazione, alberghi e case. Così son tutti contenti». Ci spostiamo verso un’altra tappa di questo viaggio. Nella zona industriale di via Milano ci sono le tracce archeologiche di una lunga storia di lavoro e produzione, appare anche la minacciosa Caffaro, una bomba inquinante non ancora disattivata.

Sulla strada si affacciano i cancelli della Ideal Standard, presidiata dagli operai dal 2 luglio scorso, uno dei casi più clamorosi di questo autunno italiano. Un paio di tendoni, un tavolo, striscioni e messaggi. I lavoratori sidannoi turni pernon mollare il presidio. Una delegazione è a Roma per un incontro, si spera in una soluzione positiva. «No, qui non c’è speranza. La fabbrica chiude » spiega Luigi Gazzoni, 46 anni, «la speranza rimasta è che ci sia un lavoro, nel centro logistico. Oggi siamo 119 dipendenti più 11 interinali, siamo rimasti uniti e la città ha dimostrato una grande solidarietà. La gente si ferma per portarci da mangiare, pensionati e lavoratori di altre fabbriche hanno raccolto fondi, il comune ci ha mandato la cena... Ma la chiusura della fabbrica è una perdita, un grave errore». Il legame dei lavoratori con il loro posto è il dna dell’identità sociale, è la cifra di una comunità. è un patrimonio che non risulta nei bilanci aziendali. La Ideal Standard, governata da un fondo finanziario, ha un forno per la lavorazione della ceramica acceso da sessant’anni, è vecchio,mai lavoratori sono in grado di raggiungere elevatissimi livelli di produttività e di qualità dei prodotti. Quando l’azienda ha tentato di spegnere il forno c’è stata l’occupazione, una rivolta.ABrescia la Ideal Standard veniva definita la caa de l’or, la cava dell’oro, perchè gli operai riuscivano a percepire un salario di gran lunga superiore alle media dei loro colleghi. Ora siamo all’epilogo. Giovanni, operaio di 57 anni, di cui 36 passati in fabbrica, ammette: «Siamo alla fine, è un peccato perchè qui c’è un bel gruppo, siamo sempre stati bene insieme».

23 ottobre 2009

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