giovedì 16 settembre 2010

"Noi finanzieri ostaggi di Tripoli su quelle navi non vogliamo salire"

IL RACCONTO "Noi finanzieri ostaggi di Tripoli su quelle navi non vogliamo salire" La testimonianza di un ufficiale impegnato nei pattugliamenti congiunti: "I libici si comportano come se fossero i padroni. Quello che è successo è incredibile" dal nostro inviato FRANCESCO VIVIANO LAMPEDUSA - "Sparare è l'ultima ratio, in casi di enorme pericolo. Ma di certo un peschereccio non poteva rappresentare un pericolo. Volevano bloccarlo? Ci sono tecniche che lo permettono, senza l'uso delle armi. Ma sa qual è la cosa più triste? Mentre i libici sparavano i miei colleghi a bordo erano impotenti. Perché non potevano fare nulla, non potevano intervenire. Abbiamo le mani legate: il nostro unico compito è di insegnare ai militari di Tripoli a governare quelle motovedette di 28 metri che il nostro governo ha ceduto a quello libico. Ho parlato con i miei colleghi a bordo e le posso assicurare che sono, a dir poco, sconcertati e non vedono l'ora di rientrare in Italia. Anche perché nei nostri confronti i libici non si comportano certo bene. Siamo sistemati in un albergo, ma è tutto recintato, è una sorta di prigione dalla quale usciamo soltanto per andare in mare con loro per le attività programmate". Chi parla è un luogotenente della Guardia di Finanza, 45 anni, oltre la metà trascorsi in mare in servizi di pattugliamento nel Canale di Sicilia. L'ufficiale ha due figli e tante esperienze vissute in mare. Vita dura perché è ancora impegnato nei servizi di respingimento degli extracomunitari che vengono bloccati fuori dalle nostre acque territoriali e ricondotti in Libia. "Quel che è accaduto l'altro ieri è davvero incredibile, purtroppo noi siamo comandati a fare quei servizi e siamo costretti a salire a bordo di quelle imbarcazioni, perché gli accordi tra il governo libico e quello italiano lo prevedono". L'ufficiale racconta che su ognuno di quei mezzi salgono cinque o sei italiani. "Ognuno di noi ha un preciso compito: occuparsi dei sistemi di comunicazione, della condotta della motovedetta, dei propulsori e di altri aspetti tecnici. Non possiamo interferire per nessuna ragione. A bordo, come a terra, i libici si comportano da "padroni", spesso arroganti e scostanti. E noi dobbiamo sopportare. I soldi in più che guadagniamo in queste missioni non valgono proprio il gioco. Soprattutto quando, com'è accaduto l'altro ieri, dobbiamo assistere impotenti a un tentativo di abbordaggio con l'uso delle armi, le nostre armi, contro dei connazionali indifesi. Tutto ciò non si può sopportare". I finanzieri tentano, quando hanno sentore che si salpa per operazioni particolari, di non salire a bordo. "Proprio per evitare di assistere a episodi come quello di domenica. Ormai i militari libici li conosciamo un po' e sappiamo che quando si salpa verso certe direzioni si va incontro a dei guai. E quando abbiamo qualche dubbio, per un motivo o per un altro, ci rifiutiamo di salire a bordo con loro. L'altro ieri evidentemente i miei colleghi non hanno sospettato nulla". I nostri militari che svolgono servizi di pattugliamento anti immigrazione si trovano tra due fuochi. Da un lato ci sono gli ordini "e gli ordini devono essere, volenti o nolenti, rispettati". Ma da quando la Procura di Siracusa ha indagato alcuni militari della Guardia di Finanza per avere "respinto" in mare extracomunitari intercettati in acque internazionali, sono ancora più in difficoltà. "Cosa dobbiamo fare? Se non li respingiamo incorriamo in provvedimenti disciplinari, se li respingiamo veniamo indagati. Ed allora come uscirne? Questa storia dei respingimenti è uno dei servizi più crudeli che svolgiamo. E da molti mesi si registrano casi di "ammutinamento" nel senso che molti pattugliatori, che dovevano salpare dai porti liguri o toscani per darci il cambio, non partono proprio. I nostri colleghi, giustamente, si rifiutano di svolgere questo servizio "infame" che non ci fa dormire la notte. Ma per non salpare ci vuole un motivo plausibile e quindi spesso il comandante o qualche ufficiale indispensabile si "ammalano". Oppure sull'imbarcazione si verifica un "problema tecnico"". Anche in mare si trovano delle scorciatoie per non eseguire i "respingimenti". "Questo, come detto, è un servizio 'infame', ed allora ognuno di noi si assume delle responsabilità, dei rischi. Per cui se possiamo appigliarci a qualcosa lo facciamo, trasferendo a bordo gli extracomunitari che incontriamo in mare, per motivi di sicurezza e soprattutto per motivi sanitari. Ma anche questo lavoro non è facile perché molti dei clandestini sono disposti a tutto, hanno paura che li riportiamo in Libia ed allora minacciano di uccidersi davanti a noi. Anche donne con in braccio i loro bambini, che ci pregano di salvarli. Ci dicono che sono pronte a lasciarsi annegare insieme ai figli. Davanti a queste situazioni, cosa fai? Io sono un militare, ma soprattutto un uomo, un padre. E a costo di rischiare provvedimenti disciplinari, non lo farò mai più. Un giorno o l'altro dovrò rendere conto a qualcuno ed io voglio avere la coscienza pulita". (15 settembre 2010) La Repubblica

martedì 14 settembre 2010