Sella
dell’ Oca, ottobre 2015
“Orazione in memoria di Mario Bernardelli e Giuseppe
Zatti”
Luigina Boemi
Non
sappiamo quanti furono coloro che presero parte ai movimenti di resistenza
nella nostra provincia, in Italia, in Europa, in quegli anni spaventosi quando
la Storia presentava un conto terribile, fatto di una guerra planetaria, di
regimi dittatoriali, di persecuzioni razziali, di diritti negati, di morte.
Non
sappiamo quanti furono i militari ribelli, gli studenti, i giovani, gli operai
e i contadini, i cattolici e i laici, i cittadini e gli abitanti delle valli e
delle pianure, le donne che decisero con fermezza quale era la parte giusta,
quale era la scelta da fare senza tentennamenti, senza dubbi.
Le
loro infinite storie, spesso sconosciute, forse senza nome, quelle innumerevoli
vite, fluirono davvero come un fiume inarrestabile, inarginabile, un fiume di
energie, di abnegazione, di coraggio, di sacrificio, nella Storia, quella dei
documenti e dei libri, quella maiuscola.
Quelle
donne e quegli uomini alzarono lo sguardo sopra il recinto forse rassicurante
del loro quotidiano, della loro individualità e colsero impellente la necessità
di uscirne, di fare qualcosa, di agire, di dire di NO.
E
non contarono differenze di istruzione o classe sociale, per trasformare la
consapevolezza in azione, per agire là dove si poteva scorgere la possibilità,
la speranza anche minima di cambiamento.
Quella
speranza che non è l’attesa di eventi legati al fato o al caso, ma nasce dall’
impegno e dalla forza di reagire.
E
quel fiume di vite, di costruttori di un’ Italia nuova, di pensieri, di
intelligenze, di passioni, si tradusse in opposizione, in resistenza, in azioni
di appoggio e collaborazione, in lotta armata.
Siamo
qui, in questo luogo sospeso tra la pianura e le valli, un tempo abitato
stabilmente, in una geografia di sentieri battuti da tagliaboschi, contadini,
cacciatori, dai molti che si spostavano da una frazione all’altra, di cascina
in cascina, dai monti del nord alle città e viceversa. Luoghi dove si sognò un’
Italia libera; luoghi che furono testimoni di accadimenti significativi della
lotta partigiana di resistenza negli anni dal ’43 al ’45; luoghi di nascondigli
possibili, di fughe, di battaglie e scontri, di pattugliamenti, di eventi
tragici.
Eventi
come quello che dà significato alla nostra presenza qui oggi, ancora oggi, dopo
settantun anni.
Un
evento minore se confrontato con la follia degli anni della seconda guerra
mondiale, se raffrontato con i milioni di morti militari e civili, con i numeri
spaventosi dell’ olocausto.
Certo
un episodio secondario, appartenente alla microstoria, come un’ infinità di altri
fatti, che però come le singole tessere di un mosaico sono in egual modo
indispensabili per comporre l’intero.
Forse
non sappiamo molto di Mario Bernardelli, da Chiari, classe 1924 e di Giuseppe
(Luigi) Zatti, da Iseo, nato nel 1925: di certo sappiamo che erano molto
giovani, il primo impiegato e poi operaio a Brescia, il secondo contadino,
figlio di contadini.
Per
motivi diversi, personali o di consapevolezza politica, lasciarono le loro
famiglie esterrefatte, gli affetti, le loro case, e si unirono alla lotta
partigiana, ai gruppi che operavano in Valle Trompia.
Sappiamo
che il 26 ottobre del 1944, dopo uno scontro a fuoco, nei pressi di Camaldoli,
furono catturati da una compagnia di brigate nere. Due giorni dopo furono
trasferiti dalla Stocchetta, dove erano stati duramente interrogati tanto da
essere ridotti in condizioni pietose, a San Giovanni di Polaveno e, attraverso
il sentiero, senza risparmio di maltrattamenti e bastonate, portati qui a Sella
dell’Oca, e fucilati, in una esecuzione sommaria e feroce.
Mario
e Giuseppe non erano soli: un terzo prigioniero, un giovanissimo, venne
risparmiato poiché Bernardelli si addossò tutte le responsabilità, sollevandolo
da qualsiasi accusa e regalandogli così salva la vita.
Non
sappiamo molto altro.
Vorremmo
conoscere, per approfondire ed arricchire di ulteriori significati quel
sacrificio, attraverso quali vie i due ragazzi decisero coscientemente, senza
costrizione alcuna, di sospendere il pensiero sul loro futuro, smisero di
immaginarlo, di immaginare progetti personali, per occuparsi del presente.
Compresero
che quel presente storico superava il microcosmo della loro soggettività e
scelsero di testimoniare con chiarezza da quale parte stare, per non sopportare
più il fardello di subire in silenzio, per rinnovare il senso della propria vita
e darle spessore attraverso un agire consapevole e determinato.
Capirono
che in condizioni estreme, come quelle che caratterizzavano il mondo in quel
periodo, non bastava un moto di disgusto, non erano sufficienti pensieri di
disaccordo o stringimenti del cuore; fuggirono dal pericolo dell’indifferenza e
della paura, compresero che il proprio esistere acquistava significato e valore
solo attraverso i fatti e le scelte.
Sospesero
dunque il pensiero sul loro futuro, Mario e Giuseppe, come altre migliaia di
donne e di uomini, proprio perché un futuro fosse possibile, con la
consapevolezza profonda che avrebbero potuto, in qualsiasi momento, pagare il
prezzo più alto: perdere la vita.
E’
la loro storia, come infinite altre, che ravviva e dà senso alla storia
ufficiale, quella dei libri e dei documenti; che dà senso alla memoria, una
memoria che esce prepotentemente dall’ archivio dove trova collocazione il
passato, che travalica la lontananza temporale e si riempie di significati
anche per le nuove generazioni, per coloro cioè che appartengono ora al futuro.
Solo
così la memoria parla, perde qualsiasi travestimento archeologico, diventa
energia vitale e concorre, insieme alla conoscenza e al sapere (perché “chi non
conosce il passato è destinato a ripeterne gli errori”) a formare e sviluppare
in ciascuno di noi quei valori condivisi che appartengono ad una comunità, ad
una cittadinanza consapevole.
E
allora ecco perché la memoria di episodi che sembrano rimandare alla particolarità,
come il sacrificio di Mario e Giuseppe, diventa indispensabile per mantenere
vivi quei legami tra il passato, pur doloroso e tragico, e il nostro presente.
Non
sappiamo molto altro di Mario e Giuseppe, eppure ci appartengono, come noi
apparteniamo a loro,
eppure
senza dubbio possiamo definirli eroi, di un eroismo necessario,
perché,
non dimentichiamolo, il nostro presente è nato da infiniti eroismi simili.
Può
esser fuori moda, anacronistico, parlare di eroi ed eroismi in una società come
quella attuale in cui spesso gli episodi di egoismo e di individualismo senza
controllo, caratterizzano quotidianamente la cronaca e gli accadimenti che
coinvolgono intere nazioni.
Ecco
un eroe è colui che guarda il mondo non con lo sguardo dell’ individualismo, ma
con la coscienza di appartenere all’ umanità, di dover agire nel rispetto dell’
umanità e di valori condivisi e universali: valori di onestà, di impegno
civile, di rispetto, di correttezza, di responsabilità personale, di legalità.
Perché
non definire eroi, oggi, nel presente, coloro che spendono la loro vita per
testimoniare la completa adesione a questi valori?
Perché
non definire eroi tutti coloro che, come Falcone e Borsellino per esempio,
hanno pagato il prezzo più alto per lottare, sempre, senza compromessi, contro
i degradi, la corruzione, i ricatti, definibili nuovi fascismi, lottare contro
l’assenza di riferimenti etici.
Eroi
coloro che testimoniano quotidianamente valori di accoglienza per ridare
dignità agli ultimi della Terra, per prendersi cura di quelli che vedono i loro
diritti calpestati ogni giorno, cura di quella parte dell’umanità che molti
fingono di non vedere, travolta da ingiustizie, da guerre e carestie.
Non
sappiamo molto di Mario e Giuseppe, ma sicuramente anche loro, liberi da egoismi
ed individualismi, ricchi dei loro riferimenti etici, hanno guardato il mondo
con lo sguardo di chi non riesce a voltarsi dall’ altra parte, di chi è
disposto a pagare il prezzo più alto, senza compromessi.
Qualcuno
ha detto “La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano”…
Mario
e Giuseppe portavano in tasca, come ognuno di noi, una manciata di chicchi di
grano: i loro talenti, la loro giovinezza, la speranza dei loro giorni e hanno
scelto di seminarli perché dopo di loro fosse possibile un nuovo raccolto.
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